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Allenamento: Periodizzazione e programmazione La teoria, la tecnica, le scuole di pensiero e tutto ciò che occorre per un allenamento proficuo e senza traumi.

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IronPaolo IronPaolo Non in Linea
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Predefinito Il segreto dell'acciaio - 25-01-2010, 09:41 PM

Il segreto dell'acciaio


“Crom è forte. Se muoio andrò al suo cospetto. Mi chiederà "Qual’è il segreto dell’acciaio?" e se non lo so, mi scaccerà dal Valhalla e riderà di me”.

Bene cari lettori, un mio amico ha hackerato www.valhalla.com/~crom/ e ha downloadato il file SecretOfTheSteel.pdf, perciò potrete conoscere questo famigerato segreto senza che dobbiate schiattare per partecipare al quiz alle porte del Paradiso dei Guerrieri.

C’è però un problema: non vi piacerà. Non vi piacerà perché è semplicissimo nella formulazione, estremamente crudele nell’applicazione. Non vi piacerà perché non è foriero di novità della serie “ah ecco!” con il coniglio che esce dal cappello per dirvi come migliorare la panca scaccolandovi i punti di pressione dentro il naso. Non vi piacerà perché “sono sempre le solite cose”, ma stavolta queste “solite cose” saranno definite come le uniche funzionanti.

La memoria muscolare non esiste

Vi ho fatto male, nevvero? Eh sì, ragazzi, la memoria muscolare è una grande cazzata. Nei muscoli non esiste NIENTE che abbia capacità di memorizzare nemmeno un bittino scacio scacio. “Si ma un mio amico che era 20 anni che non faceva panca ci ha messo 3 settimane a superarmi”. Vero: ma non sono i muscoli suoi differenti, è la sua testa.
Cosa hanno in comune queste situazioni:
  • Un tizio che fa squat
  • Un tizio che va in bicicletta
  • Un ictus al cervello (ictus, colpo in latino, stroke in inglese)
  • Un tizio che gioca ad un videogame.
E anche queste qua:
  • Gioco alla WII e il mio kart finisce sempre fuori strada alla stessa curva, il giorno dopo guido da Dio.
  • Faccio panca per settimane e non mi riesce addurre le scapole, poi di botto… adduco e spingo.
  • E dieci anni che non tocco un peso, mi infilo sotto il bilanciere e a furia di singole arrivo al 70% del mio massimale di sempre. Il giorno dopo striscio come un invertebrato per arrivare al lavoro, ma questo è un altro discorso.
  • Per 20 anni mi sono allenato in un certo modo, trovo un altro metodo e miglioro di colpo ben oltre le mie più rosee aspettative.
  • Ho 50 anni e mai ho toccato un peso, a dispetto delle previsioni negative degli “amici” il miglioramento di forza è pazzesco.
In comune a tutto questo c’è la presenza di un cervello che impara o re-impara, con i suoi tempi e i suoi modi. Se vogliamo capire come imparare uno squat eccezionale è necessario capire come il cervello recupera a seguito di una ferita, se vogliamo capire cosa è la memoria muscolare dobbiamo capire come il cervello apprende.

Un problema è che le conoscenze sono troppo polarizzate, specifiche, dedicate. Nessun allenatore studia il recupero post-ictus, nessun neurologo studia perché il culo sale troppo velocemente in uno stacco. Il link fra le conoscenze rende, devo dire, tutto molto chiaro e a me ha veramente impressionato.

Vi ricordate la scena di 2010 l’Anno del contatto quando HAL 9000 chiede se sognerà quando la Discovery sarà disintegrata? HAL 9000 era un computer a memorie olografiche, il controllore di tutte le funzionalità della nave, ricevendo gli input sensoriali e generando ordini esecutivi.

Il nostro corpo ha un controllore, noto a tutti ma di cui tutti ignoriamo veramente l’incredibile potenza: il Sistema Nervoso Centeale o SNC. La nostra cultura di base associa al cervello una incredibile capacità di apprendimento e di memorizzazione ma una assoluta staticità morfologica. Se ci pensiamo un pochinino, questa posizione è del tutto ingiustificata: il cervello è plastico, riesce ad alterare la sua struttura per adattarsi all’ambiente.

Per inciso, le memorie olografiche esistono e saranno forse anche commercializzate per la loro devastante capacità di memorizzazione. Per inciso, la memoria del cervello umano è incredibilmente più elevata della più elevata memoria olografica.

Cercherò, con molta umiltà di fronte all’immensità della materia, di presentare del materiale per la creazione di un modello coerente di “sistema di allenamento” basato sulla neurofisiologia, filtrando le informazioni per ciò che ci riguarda. Mi preme dire che mai come questa volta dovete non fidarvi ma sviluppare per conto vostro una base di conoscenza su queste tematiche.

Integrare…


Ecco l’unità base del Sistema Nervoso: la cellula nervosa, chiamata neurone. Ce ne sono di diversi tipi, ma poiché a noi interessa “solo” la funzione che questo affare svolge, per noi i neuroni saranno di un tipo solo.

Il neurone è composto da una testa e da una coda (non ditelo in giro): la testa è detta nucleo e contiene la parte intelligente, quella che “pensa”, la coda è detta assone ed è quella che trasporta a destinazione il risultato dell’elaborazione del nucleo. L’assone si ramifica in più terminazioni.
Intorno al nucleo sono presenti dei dendriti, ramificazioni che aumentano la superficie del nucleo stesso.

Ok, ma se il nucleo elabora e l’assone invia il risultato alle terminazioni, chi fornisce le informazioni da elaborare e chi riceve le informazioni elaborate? Ma è semplicissimo, banale direi: altri neuroni!


Et voilà: una terminazione di un neurone “tocca” un dendrite del nucleo di un altro neurone: il punto di contatto si chiama sinapsi, pertanto il neurone “prima” della sinapsi, cioè quello che invia, viene detto presinaptico mentre quello “dopo” la sinapsi, cioè quello che riceve, è detto postsinaptico.

Il risultato dell’elaborazione del neurone presinaptico è una “scossetta elettrica” che viaggia sull’assone, detta potenziale d’azione. Arrivata alla sinapsi questa elettricità provoca il rilascio di una serie di sostanze che fluiscono nell’altro neurone provocando l’innesco di una nuova “scossettina” dentro il nucleo.

Le sostanze rilasciate sono dette neurotrasmettitori, una delle quali è l’acetilcolina, ACh indicata nel disegno. Coloro che ancora non dormono e sono particolarmente intelligenti (io no, l’ho letta questa cosa che vi sto per dire) si chiederanno perché l’assone non può ficcarsi direttamente dentro il nucleo del neurone ricevente senza neurotrasmettitori e compagnia bella. Se così fosse, l’impulso che parte dal nucleo sull’assone potrebbe andarsene anche indietro sugli assoni dei neuroni presinaptici e questo non sarebbe bello. Il neurotrasmettitore garantisce il passaggio dell’impulso in un verso solo. L’Architetto vi direbbe “’cca nisciuno è fesso…”


Perciò, questo è ciò che fa un neurone: elabora informazioni di altri neuroni e le invia ad altri ancora. Un singolo neurone può ricevere informazioni da migliaia di neuroni e fornirle ad altre migliaia. Si capisce fin da questa prima descrizione che le potenzialità siano veramente immense!


Ok ok ok, non ce l’ho fatta, passatemela per favore… Il nostro neurone riceve dei segnali da altri neuroni che possono essere assimilati a degli “uno”: presenza del segnale, “uno”, assenza, “zero”. Questa è proprio la definizione di bit, binary digit, numero binario cioè a due stati. Il risultato dell’elaborazione è a sua volta un “uno” o nulla, cioè “zero”, un altro bit.

L’elaborazione consiste in questo: se la somma di tutti gli ingressi è superiore ad una certa soglia, spara l’uno sull’assone, altrimenti non fare nulla.Questo è il senso del demenziale programma scritto a destra che è del tutto inventato ma che in due balletti potrebbe funzionare come modello di neurone. Perciò, un neurone elabora sommando gli impulsi di ingresso: somma, cioè integra, mette insieme.

Un neurone reale è solo un po’ più complicato di questo presentato: la Natura ha scelto per le nostre funzionalità più evolute quali l’Amore, la Coscienza, l’Intelligenza proprio una unità elementare che più elementare non si può. Se il mattoncino di base è molto semplice, mettendo insieme i mattoncini la complessità aumenta di brutto.


In questo caso, un neurone elabora tanti segnali in ingresso per restituire la sua elaborazione a tanti neuroni in uscita. Ok. L’avevamo già visto.

Mettiamo insieme più neuroni che ricevono segnali e inviano segnali e creiamo un bel raggruppamento in cui tanti neuroni sono collegati fra di loro. Questo raggruppamento, chiamato nucleo, di neuroni che concorrono allo stesso scopo riceverà in ingresso i segnali di altri raggruppamenti per inviare in uscita i segnali elaborati ad altri raggruppamenti. L’integrazione avviene a livello più aggregato.


L’insieme di tanti raggruppamenti costituisce una funzione complessa del cervello, il linguaggio, la vista, il controllo di un arto. L’integrazione avviene a livelli di complessità ancora più elevati.


L’insieme di tutte le funzionalità complesse forma l’intero cervello: questo integra le informazioni che gli arrivano dal “mondo”, cioè dall’ambiente in cui è immerso, per generare dei comportamenti. Il Sistema Nervoso è perciò caratterizzato dall’elaborazione delle informazioni in un sistema multilivello a complessità crescente: è la sua immensa potenza.


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Trokji Trokji Non in Linea
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Predefinito 25-01-2010, 10:18 PM


paolo il vero segreto dell'acciaio che intende Tulsa Doom e che vuole scoprire Conan ce l'ho in firma .
Cmq più che nucleo del neurone è il soma...o comunque il corpo cellulare ad integrare.. l'integrazione dei segnali elettrici avviene sempre grazie ad una membrana.. il nucleo cellulare non c'entra nulla con questo in maniera diretta.
immagino tu intendessi però come nucleo il soma cellulere, quindi nucleo in senso lato.. non nucleo cellulare.. giusto?
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IronPaolo IronPaolo Non in Linea
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Predefinito 26-01-2010, 12:21 AM


Si, nucleo in senso lato, già quando rileggo è tutto difficile così con le 4 cose che dico, quello che dici tu è correttissimo ma è troppo dettagliato e ho dovuto cassare via un sacco di roba!
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IronPaolo IronPaolo Non in Linea
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Predefinito Il segreto dell’acciaio – Parte 2 – l’ometto - 26-01-2010, 07:36 PM


Nella puntata precedente abbiamo visto come il cervello integri le informazioni che riceve dall’esterno. Adesso vediamo più in dettaglio come è strutturato il più potente cloud computer dell’Universo.


A sinistra i costituenti del sistema come visti dall’esterno: una scatola cranica, tecnicamente chiamata crapa o zucca o anche testacciadi(beep) che contiene quello che chiamiamo cervello, una spina dorsale che contiene il midollo spinale da cui escono dei nervi.

Tutto questo è ben noto, dato che è oramai parte integrante della cultura di base della palestra, però basta pochissimo per entrare in un vero marasma di definizioni. A destra un piccolissimo accenno: il Sistema Nervoso è suddivisibile in due macroaree: l’encefalo e il midollo spinale.

L’encefalo è tutto quello cheè contenuto dentro la scatola cranica ed è ciò che identifichiamo normalmente con cervello ma in realtà il contenuto della zucca di ognuno di noi è suddivisibile in almeno tre parti: il cervello propriamente detto, quello grigiastro con i solchi che si vede in tutti i disegni, il tronco encefalico che collega il midollo spinale a tutto il resto e il cervelletto.

Notate come il diagramma rappresenti una gerarchia e sarebbe suddivisibile ulteriormente in moltissime altre parti di cui non riporto i nomi per non appesantire la trattazione. Queste sono comunque le parti che ci interessano per migliorare, lo so che non ci credete, il nostro allenamento.


Il disegno rappresenta una suddividione del Sistema Nervoso in base alle funzionalità. Notate come, spostandosi dal basso verso l’alto aumenti la complessità di ogni funzione.

Il tronco encefalico e il midollo spinale permettono le funzionalità basilari e indispensabili per la sopravvivenza dell’organismo: la regolazione della temperatura, del battito cardiaco, i movimenti riflessi, la pressione sanguigna. Il tronco e il midollo sono comuni a tutte le creature vertebrate, sono il kit di base come lo sterzo e il motore. E’per questo motivo che una lesione al tronco è solitamente mortale: dovunque la ferita vada a cadere viene intaccata comunque una funzionalità importante.

Il sistema limbico è un insieme di organi che caratterizzano l’istinto alla sopravvivenza: fame, sete, pulsioni di base, il fight or flight o attacca o fuggi dipendono da questa zona profonda dell’encefalo. Quest’area è comune a tutte le specie dai rettili in su in quanto necessaria per la sopravvivenza di ogni specie. E’ nel sistema limbico che nascono le emozioni più primitive.

Salendo ancora alla fine arriviamo alla corteccia che permette le funzionalità più evolute quali la coscienza e il pensiero astratto. Lo sviluppo della corteccia è ciò che determina la posizione nella scala evolutiva di una specie: l’Uomo Sapiens Sapiens è la creatura con la corteccia cerebrale più sviluppata rispetto al proprio peso corporeo e questo è di fatto il motivo del nostro successo nel dominio incontrastato del Pianeta Terra.


I nervi sono gli elementi di livello più basso quasi sempre trascurati se non quando il colpo della Strega ci paralizza in improponibili posizioni. I nervi sono le sonde che restituiscono informazioni alla intelligentissima corteccia e che permettono a questa di far agire gli organi del corpo umano.

Un nervo è costituito dall’insieme di più assoni, come un cavo ottico contiene tante singole fibre. Tanto per dare un’idea, il nervo sciatico ha il diametro di un dito! I nervi si dividono in craniali e spinali con i primi che escono direttamente dalla base del cervello e i secondi dal midollo spinale.

Esistono due tipologie di nervi, sensitivi o efferenti e motori o afferenti. I primi trasportano gli input che il cervello integra, i secondi inviano gli output per far svolgere i vari compiti.


Un concetto importantissimo: tutti i nervi entrano ed escono dal tronco encefalico, pertanto tutte le informazioni sono processate partendo dalle aree “primitive” per arrivare a quelle “evolute”. L’integrazione delle informazioni è perciò multilivello dato che ogni “strato” restituisce a quello immediatamente superiore un input processato e filtrato e riceve allo stesso tempo un input dal livello superiore analogamente da questo processato e filtrato.

La formazione di ciò che chiamiamo “percezione della Realtà” è pertanto un processo estremamente complesso in cui noi non conosciamo veramente ciò che ci circonda ma solo quello che le varie zone del cervello ci fanno conoscere.

E’ capitato a tutti che l’ansia ci ha impedito di ricordare un compito che dovevamo svolgere, pur sapendo benissimo di aver sentito ciò che dovevamo fare: il flusso delle informazioni uditive è stato processato, siamo “coscienti” di aver udito, ma non è stato memorizzato.

Questo sistema multilivello è ciò che permette alle “emozioni” di influenzare la percezione della Realtà, l’apprendimento, le decisioni che andiamo a prendere. La modularità del tutto è la sua forza immensa come la sua incredibile debolezza.


Per quanto l’attività in palestra sia associata a comportamenti da bruti decerebrati, in realtà andiamo ad inviare input ed a ricevere output da aree del cervello estremamente evolute, pertanto nel disegno ho riportato la suddivisione macroscopica della corteccia in lobi ed emisferi.


Le zone di ogni lobo sono “etichettate” in base alla funzione che devono svolgere, nel disegno alcune delle aree più famose.

E’ interessante notare come questo tipo di mappatura sia essenzialmente grossolana, dovuta a studi risalenti agli anni ’40-’70 su pazienti epilettici, colpiti da ictus, pazzi, sicuramente qualche esperimento nazista di sezionamento cerebrale in vivo, su soggetti in cui venivano operati simpatici elettroshock.

In pratica la mappatura deriva dalla stimolazione elettrica o dalla presenza di una lesione: un ictus devasta un’area del cervello e il tizio non parla più perciò quell’area era relativa al linguaggio oppure dò un po’ di 220 ad una certa area e il tipo fortunato ha degli scatti alla mano destra perciò l’area era relativa alla mano destra.

Solo negli ultimi 20-30 anni è stato possibile determinare una mappatura più fine e profonda delle aree del cervello, grazie alle nuove tecnologie iniziando dalla Tomografia Assiale Computerizzata e dalla Risonanza Magnetica, “sonde esplorative” di finezza sempre superiore.

L’homunculus


Questo disegno è il rifacimento di uno schema famosissimo chiamato homunculus di Penfield ed è ciò che ci interessa: vi prego di considerare quello che scriverò come una primissima approssimazione della situazione reale, un modello o uno schema mentale da utilizzare per memorizzare meglio i concetti. Come tutti i modelli è una semplificazione della realtà, un po’ come la Supercompensazione: usatela al meglio e migliorerete nell’allenamento, altrimenti vi allenerete ogni due mesi aspettando il picco supercompensativo.

Al confine fra i lobi frontali e i lobi parietali sono presenti due zone del cervello ben precise: la corteccia motoria sui lobi frontali e la corteccia sensitiva sui lobi parietali. La corteccia sensitiva riceve gli input dai sensori del corpo, la corteccia motoria invia gli ordini agli organi motori del corpo, i muscoli. Per questo motivo a noi questa roba interessa!

Ogni zona di queste due aree è relativa ad una certa “parte” del corpo, ma non in proporzione al volume della parte stessa, piuttosto alla sua importanza per la sopravvivenza ed il benessere dell’individuo: le parti indicate nel disegno hanno una forma proporzionale alla dimensione della rispettiva zona sulla corteccia.

Questo è il motivo per cui i neuroni relativi all’uso delle mani e delle dita occupano una bella porzione della corteccia motoria rispetto alle gambe o ai piedi: il controllo fine dei movimenti delle mani è necessario per svolgere compiti complessi, mentre per una gamba è necessario un grado di controllo molto minore.

Analogamente la corteccia sensitiva: gli input ricevuti dai sensori delle mani e delle dita sono fondamentali per capire se e come svolgere un dato compito, pertanto tantissimi neuroni sono dedicati a queste elaborazioni.

La rappresentazione del corpo è così deformata nella corteccia rispetto alle vere “forme”, da cui il termine homunculus.

Questo ometto è una rappresentazione molto chiara e utile per memorizzare concetti importanti, ottenuta con i metodi precedentemente menzionati ma confermata da tutte le analisi successive, ma è possibile cadere in un errore didattico: pensare che sia statica ed immutabile.

In realtà ciò che caratterizza la corteccia cerebrale, pertanto anche quella sensi-motoria, è la sua plasticità: la possibilità di alterare le dimensioni delle proprie aree funzionali.

Per questo motivo, un pubblico ringraziamento: tempo fa lessi su un forum un intervento di Marcoevrnfun proprio sulla plasticità della corteccia. E’ stato lui che mi ha dato la scintilla per informarmi di argomenti che altrimenti mai avrei minimamente affrontato: ancora una volta Internet e le Boards dove le persone dialogano si rivelano una fonte di automiglioramento eccezionale. Grazie Marco, grazie a te conosco oggi più cose interessanti del mondo che mi piace.
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Predefinito the memory remains - 28-01-2010, 10:29 AM


Più andiamo avanti in questa serie di “articoli” (sempre le virgolette, non vorrei prendermi troppo sul serio) e più le cose si fanno complicate. Per voi che leggete ma anche per me che le scrivo, in quanto tutta questa roba è sicuramente non specifica del mio bagaglio culturale: fosse per me parlerei solo di squat e fumetti, un chiaro esempio di personalità plagiata dalla Sindrome di Peter Pan. A proposito, l’ultimo numero di Dylan Dog, Mater Morbi, è una piccola perla: numeri e numeri banali poi un capolavoro. La prossima copertina invece è un omaggio ad Escher. Come dite? Ah si, la memoria…

Non può mancare una trattazione di questo splendido e misterioso argomento poiché per fare ad esempio le trazioni noi usiamo la nostra memoria.

Tanto per dire: possiamo fare trazioni con una sbarra a pressione fra gli stipiti di una porta, al parco nell’area benessere o in palestra alla postazione apposita. Nessuno farebbe le trazioni attaccandosi al pek dek o ai tubi del riscaldamento dello spogliatoio. Questo perché identifichiamo la “sbarra per le trazioni” confrontando i vari pezzi di ferro con un modello di “sbarra” presente nella nostra testaccia.

Analogamente, eseguiamo il movimento concentrandoci sul “finire la serie” e non pensiamo “adesso devo tirare con i bicipiti”: richiamiamo dal nostro cervellino uno “schema motorio” che però le prime volte non avevamo e abbiamo dovuto… imparare.


La memoria è la capacità del cervello di mantenere dentro di se in qualche maniera le informazioni provenienti dal mondo per poi utilizzarle.

Per completezza, esistono diversi tipi di memoria sulla base del criterio di classificazione scelto. Nello schema la suddivisione della memoria per il tipo di informazione memorizzato:
  • La memoria dichiarativa riguarda tutti i ricordi esprimibili a parole: “il mio PC era sul tavolo”, “ecco le prime 1000 cifre di PiGreco”. La memoria dichiarativa riguarda “qualcosa che posso raccontare”.
  • A sua volta questo tipo di memoria si suddivide in memoria semantica che riguarda ricordi e idee di tipo generale quali la generica sbarra delle trazioni o la conoscenza di nozioni sui cani indipendentemente dal fatto che io ne abbia uno, e in memoria episodica che invece è relativa ad uno specifico evento come aver fatto le trazioni ad una particolare sbarra o avere un ben preciso cane.
  • La memoria procedurale riguarda l’esecuzione di compiti, “qualcosa che posso fare”, come andare in bicicletta o, appunto, fare le trazioni”
Molti studi hanno identificato che la memoria dichiarativa e quella procedurale sono processate differentemente nel cervello. Vi presenterò però solo il modo con cui si pensa venga elaborata la memoria dichiarativa anche se a noi interesserebbe di più quella procedurale. Del resto, vogliamo fare lo squat e non impararci le poesie a memoria. Che si fottano, le poesie.

Poiché l’argomento è complesso e non è chiaro nemmeno a chi lo studia, mi permetto di evidenziare questi aspetti: gli studi sono effettuati con esperimenti in cui i soggetti sono sottoposti a compiti “semplici” e facilmente catalogabili come dichiarativi o procedurali (ricordare una sequenza di lettere o picchiare le dita sul tavolo con un certo ritmo), viene registrata l’attività del cervello per capire cosa succede.

Se il confine è netto in questi casi, è molto più labile se parliamo di compiti complessi quale ad esempio uno squat: io posso descrivere lo squat, ho coscienza di dove sono in ogni momento della traiettoria, per impararlo devo non solo comprendere il movimento ma anche il perché deve essere proprio quello. L’apprendimento di uno squat coinvolge moltissime aree del cervello ed è difficile classificarlo come solo procedurale…

Due memorie… anzi tre


Se il cervello è la più potente macchina elabora-informazioni dell’Universo, il modo con cui memorizza le informazioni non può di sicuro essere banale e semplice…

Qualsiasi sensazione raggiunge i nostri sensi viene memorizzata per qualche secondo in quella che viene definita memoria di lavoro. Queste sensazioni vengono memorizzate o scartate ma comunque il contenuto della memoria di lavoro viene sostituito da altri ricordi.

Dalla memoria di lavoro le informazioni, le registrazioni, passano all’ippocampo, una zona del cervello all’interno del lobo temporale, e alla corteccia cerebrale. Nel disegno le frecce MI e MC rappresentano la “forza” con cui vengono creati questi ricordi o tracce nelle rispettive aree.

Perciò, inizialmente la memoria si forma nell’ippocampo.
I ricordi tendono a diventare più labili con il passare del tempo, cioè decadono ma con velocità differenti nelle due aree descritte: più velocemente nell’ippocampo, freccia DI, più lentamente nella corteccia, freccia DC: questo significa che la memoria diventa nel tempo sempre meno dipendente dall’ippocampo.

La freccia C rappresenta il consolidamento della memoria dall’ippocampo alla corteccia ed è la chiave di tutto: l’ippocampo non è solo una RAM veloce che memorizza informazioni ma può “insegnare” alla corteccia.

A che serve “consolidare”?

Sarebbe tutto più semplice se qualsiasi informazione venisse memorizzata istantaneamente. Il problema è che sarebbe un vero spreco.
Permettetemi questo parallelo: abbiamo oggi a disposizione hard disk di dimensioni di un terabyte, mille gigabyte, che ci permettono di memorizzare qualsiasi nuovo file senza preoccuparci di cancellare i vecchi.

Questo è comodo ma è stupido, una possibilità data dal costo in picchiata dei supporti di memorizzazione che permette di aumentare indiscriminatamente la capacità di memorizzazione.

Nascono, però, nuovi problemi: le decine di migliaia di foto, le migliaia di canzoni, le centinaia di film devono essere in qualche modo catalogate per essere utilizzare, per scappare fuori quando ci servono e buttare dentro roba qualsiasi essa sia aumenta la complessità della gestione delle informazioni stesse. Vi accorgete di questo problema quando fate vedere a vostra suocera le foto della comunione del nipotino e scappano fuori immagini raccapriccianti dei vostri incontri sado-maso a base di latex e fruste. “Eppure mi ricordavo che da CMG001.jpg a CMG103.jpg c’erano le foto del piccolo…”. “Coglione! I nomi sono quelli giusti ma hai aperto la cartella sbagliata!”.

Il cervello è strutturato non solamente per memorizzare informazioni, ma principalmente per catalogarle e poterle utilizzare.

La memoria di lavoro è pertanto un buffer dove tutto viene schiantato dentro, ma per poco tempo. Poi, in qualche modo e con una qualche forma di filtraggio, tutto viene passato a strutture che elaborano informazioni.

La corteccia contiene la “vera” memoria delle informazioni, i ricordi che permangono, catalogati e classificati in modo da poterli richiamare quando servono per sopravvivere al mondo: l’immissione tout-court di nuove informazioni porterebbe alla distruzione di questi schemi con conseguenze estremamente pericolose. L’ippocampo permette così l’acquisizione “rapida” di nuove informazioni che possono essere utilizzate senza che queste vadano a rovinare gli archivi della corteccia.

L’altro importantissimo ruolo dell’ippocampo è il “replay” continuo delle informazioni presenti al suo interno verso alla corteccia che può così scoprire elementi comuni fra esperienze diverse, categorizzare informazioni eterogenee, generalizzare ricordi particolari integrando (appunto, sommando) tutto questo alle informazioni presenti consolidando, cioè “rendendo stabile”, il nuovo nel vecchio.

La formazione della “memoria” è perciò l’integrazione di nuove informazioni all’interno della struttura di ciò che è già presente, ed è un processo che richiede del tempo, giorni, settimane.

Specialmente per i “ricordi motori” il sonno svolge un ruolo fondamentale per la riorganizzazione degli schemi mentali connessi ai movimenti: oggi avete giocato tutto il giorno con la PS3 ma il cattivone di turno vi ha ammazzato sempre, domani vi svegliate e il cattivone prende un sacco di kicks in the ass. Il “ricordo motorio” dei movimenti delle vostre mani coordinate dagli occhi si è integrato con gli altri presenti nella vostra corteccia permettendovi un controllo migliore rispetto a quello del giorno prima. E’ necessario perciò uno stimolo ma anche del tempo perché questo stimolo possa fondersi con gli altri. Riuscite a vederci qualcosa di buono per quanto riguarda l’allenamento?

L’ultimo paragrafo è pericolosissimo per il palestrato medio che a seguito della lettura pensa: “se dormire migliora la mia performance, allora dormire 10 ore è meglio di 8 ore e 12 meglio di 10”. Mi raccomando: non c’è bisogno di raddoppiare la dose di Tavor ed andare in letargo per diventare più forti.

Il cervello utilizza come sempre un metodo geniale per permetterci di memorizzare quantitativi illimitati di informazioni: una compressione delle informazioni fantastica insieme ad una velocità di acquisizione

Perché ripetere?

C’è un piccolo problema: il cervello è fantastico, l’ippocampo, la corteccia, ci vuole un po’ i tempo poi tutto viene consolidato bla bla bla. Bene: ma se è così eccezionale, perché per memorizzare qualcosa di minimamente complesso devo ripetere quel “qualcosa” più e più volte?

Bella domanda, no?

Come vedete, per scoprire chi è l’assassino in questo gioco è necessario continuare a giocare: la risposta a questa domanda è semplice se si risponde a quest’altra domanda: “cosa accade fisicamente al cervello quando memorizza qualcosa?”

Toccatevi già da ora i gioielli di famiglia perché nella prossima puntata parleremo di ictus cerebrali…
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Paolo premesso che le cose che scrivi sono tutte giuste da quel che ho visto, ma espresse in maneira "accattivante", per renderle abbastanza piacevoli per la lettura.. mi chiedo perchè però vuoi esprimerle nel tuo libro? cioè siamo d'accordo che la fisiologia, anzi direi tutte le branche mediche in fondo, sono alla base del funzionamento/deterioramento del corpo umano, quindi in teoria più so riguardo a questo e più consapevolmente posso programmare il mio allenamento, la mia alimentazione, recupero ecc.
Però è chiaro che questo sarebbe fattibile solo con un corso di laurea in medicina, oppure avendo un forte interesse personale che spinga volontariamente a leggere anche cose talvolta nozionistiche e difficili da leggere e ricordare (se non si è costretti ).
Quindi qual è il vero motivo di questa digressione? dare una "base" introduttiva al tuo lavoro ricollegandosi alle cose basilari del funzionamento del corpo umano
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Predefinito Il segreto dell'acciaio... eccolo! - 28-01-2010, 02:25 PM


Le neuroscienze hanno avuto un impulso notevole a partire dagli anni ’80 quando è stato possibile osservare meglio il comportamento del cervello. Nel mondo scientifico circa 30 anni di ricerca è un tempo relativamente breve.

Per esperienza, il “ricercatore” non è, statisticamente, una persona reattiva. Ok, lo scienziato pazzo ha sempre delle grandiose idee innovative e rivoluzionarie. Il problema è che lo sono solo le sue mentre quelle di un altro scienziato pazzo sono sempre idiozie. E’ l’animo umano…

Questo fa si che siano necessari anni prima che i cambiamenti siano assimilati in ambito scientifico, da cui deriva che un trentennio non sia poi un tempo lunghissimo.

Quando mi sono laureato andavano di moda le reti neurali, proprio perché l’elettronica del tempo iniziava a presentare circuiti integrati flessibili e programmabili e i PC iniziavano ad avere potenze di calcolo accessibili a costi ragionevoli per una università. Ho simulato la mia bella rete neurale su una workstation Sun di potenza immensa rispetto al mio 486DX2 a 66Mhz.

Il problema è che gli ingegneri si perdevano nei dettagli matematici e tecnici del singolo neurone e delle singole connessioni non vedendo il quadro generale. La nebbia permette di vedere i particolari piccoli ma vicini e offusca strutture gigantesche ma lontane. Sarebbe bastato poco per ottenere il risultato di questo scritto: non voglio dire che sia intelligente, solo che a parità di idiozie avrei potuto scriverle 15 anni fa.

Ritrovo questa problematica in moltissimi testi di apprendimento motorio che ho letto: si “apprende” per ripetizione, esistono delle “curve di apprendimento”, esistono dei modelli che funzionano. Sono modelli plausibili, efficaci, intuitivi e ragionevoli. Però… perché funzionano? Il problema, secondo me, è che come la Teoria della Supercompensazione, sono dei modelli semplificati della realtà, vista a livelli macroscopici.

Nascondere i dettagli è necessario e non voglio essere il solito ipercritico. Vi prego, però, di “studiare” un po’ quello che scriverò perché dalle cose che ho letto è possibile derivare, come faremo nei prossimi pezzi, un modello di allenamento coerente che spiega TUTTO. Stavolta non voglio essere presuntuoso e vi dirò che credo molto in quello che scriverò: vi prego di farmi avere tutte le vostre critiche.

Stroke!


Una piccola arteriola che nutre il cervello si ostruisce per un accumulo di grasso, per un embolo o per qualsiasi altro fottuto motivo che il Destino ha deciso in quel dato momento, un’area del cervello soffoca perché non riceve ossigeno, muore nel giro di qualche minuto. E’ l’ictus cerebrale, il colpo, the stroke, che arriva e devasta come nessun Mike Tyson riuscirebbe a fare. L’ictus dura pochi secondi, il suo effetto per sempre.



Dopo, cosa accade? Poiché tutti noi siamo venuti a contatto per via indiretta con questo terribile evento, è facile mettere insieme delle frasi sentite:
  • “A seconda dell’area colpita potrà riprendersi o meno”
  • “La lesione è molto estesa, non tornerà come prima”.
  • “Non parlava/non muoveva un braccio, dopo la riabilitazione è tornato quasi come prima”.
In particolare, nell’ultima frase è contenuto ciò che ci serve: cosa accade durante la riabilitazione? Nei programmi stile Quark sentirete quest’altra frase: “altre aree del cervello prendono il posto di quella che non c’è più”.


L’avete sentita, dai! L’avete sentita ma, come me, non ci avete mai ragionato sopra. Bene: rewind veloce… ecco… ora bullet time please… cosa è il bullet time? Ma chi assumono in regia? Manda piano la scena come in Matrix quando Trinity prende a calci i poliziotti, ma che devo fare tutto io?

Nella foto precedente l’effetto di un ictus: l’area nera a destra che non è presente a sinistra è l’effetto del colpo, una necrosi dei tessuti (per correttezza, ho preso un’immagine a caso con Google, il naso dovrebbe essere sopra e la nuca sotto… altrimenti facciamo come gli archeologi che avevano messo la testa del dinosauro al posto del culo e poi avevano dedotto interessanti peculiarità della spina dorsale ah ah ah)


Ipotizzo che l’ictus abbia colpito la zona della mano sinistra, a sinistra l’ictus sull’homunculus di Penfield e a destra l’effetto della morte dell’area interessata: vengono a mancare i neuroni che controllano la mano che rimane inerte perché per quanto lo sfortunato soggetto possa sforzarsi, per quanto i muscoli siano intatti, per quanto i nervi che arrivano alla mano siano ingegri, mancano proprio gli organi che “ordinano” alle dita di muoversi.

A questo punto, che succede? Riorganizziamo le due ultime frasi: il soggetto fa della fisioterapia e un’altra area del cervello impara ad usare le dita e la mano può recuperare tutta o parte della sua funzionalità.
In altre parole, succede questo:


La mano dopo la riabilitazione torna a posto non perché l’area di partenza guarisce, ma perché altre zone imparano ad usare la mano!

Sull’homunculus ho uno spostamento delle zone che è registrabile e verificabile. Studi di questo tipo sono stati fatti e tutti confermano questo spostamento di aree: studi sugli amputati o sui ciechi evidenziano una riorganizzazione della corteccia cerebrale.

Imparare

La prima considerazione, copernicana per la sua portata, è che il cervello non è statico: l’homunculus non è fisso ma può variare! I neuroni persi non si recuperano, ma gli altri possono cambiare la loro configurazione per fare altre cose.

Del resto, la macchina adattativa più potente dell’Universo lotta contro la Morte mettendo in atto tutte le strategie possibili: se è capace ad imparare, costringerà le parti rimanenti ad imparare ciò che si è forzatamente perso! A seguito di un ictus il cervello attua immediatamente tutta una serie strategie per recuperare la funzionalità perduta, ma conosciamo benissimo i miracoli di una corretta riabilitazione.

La seconda considerazione deriva dalla fusione di questo concetto con la definizione di apprendimento: “l’apprendimento è definito come il cambiamento relativamente permanente come risultato della pratica” In questa definizione è assente il motivo per cui avviene un cambiamento con la pratica, perché manca il link fra il mondo della Psicologia e il mondo della Neurofisiologia.

Ora, non è che questo link lo farò io, ben altri ci stanno pensando. Solamente, per quasi un secolo è mancato e solo nell’ultimo trentennio la Scienza sta costruendo questo ponte.

La riabilitazione è un processo di apprendimento, perché re-insegna tramite la pratica funzionalità altrimenti perse. La riabilitazione causa una riorganizzazione delle aree cerebrali, pertanto la riabilitazione è un processo di apprendimento che porta ad una riorganizzazione delle aree cerebrali o, se volete, l’apprendimento è una riorganizzazione delle aree cerebrali!


In questo disegno due delle strategie di riorganizzazione che più mi hanno impressionato: l’axon sprouting e la crescita dendritica. Il primo nome è in inglese perché sprout significa germogliare e la traduzione in italiano non mi veniva bene.

In pratica, i neuroni possono far crescere il proprio assone e le proprie terminazioni: in questo modo è possibile raggiungere altri neuroni! Dall’altro lato, i neuroni possono far crescere i loro dendriti, le zone su cui possono agire le terminazioni nervose di altri neuroni!


Ok, gli assoni germogliano, i dendriti crescono e nuove terminazioni toccano nuovi dendriti. Perché tutto questo abbia un senso è necessario che sia possibile creare nuove giunzioni: questo fenomeno si chiama sinaptogenesi ed è ciò che regolarmente accade quando impariamo qualcosa.


Il risultato finale, per me sconcertante, è che il cervello cambia la sua configurazione a seguito degli stimoli esterni: è quanto di meno statico esista. La riorganizzazione a seguito di un ictus è l’espressione massima di questo fenomeno, ma semplicemente vengono esasperate strategie normalmente utilizzate per… imparare qualsiasi cosa.

Axon sprouting, crescita dendritica e sinaptogenesi sono esempi di plasticità strutturale del cervello: il network neurale cambia forma, si rimodella come la plastilina, il Pongo o il Didò. Esiste, ed è ugualmente fondamentale, anche una plasticità funzionale.


Sappiamo che un neurone emette il suo +2… ehm, scusate… +1 sull’assone se la somma degli altri +1 in ingresso è superiore ad una certa soglia: questa soglia, chiamata potenziale di membrana, può variare: ciò significa che il neurone emetterà il suo +1 più frequentemente (in questo caso) o meno.


L’impulso in ingresso sulla sinapsi che stimola il rilascio di neurotrasmettitori causa la produzione di un impulso elettrochimico dentro il nucleo del neurone ricevente. Variazioni chimiche sulla sinapsi provocano variazioni dell’impulso ricevuto e pertanto una diversa elaborazione: questo adattamento è la variazione del potenziale eccitatorio post-sinaptico.


Un’altra strategia è la variazione del firing rate, cioè della frequenza con cui il +1 in uscita viene emesso a parità di impulsi in ingresso.


Infine, poi basta e non vi tedio più, più neuroni possono sincronizzare il loro +1 in uscita per creare un +1one collettivo.

La plasticità funzionale è caratteristica della memoria a breve termine, quella strutturale della memoria a lungo termine (non prendete questa frase come biblicamente immutabile): la prima infatti è una variazione della chimica dei neuroni, la seconda coinvolge la produzione di nuovi “pezzi” di neurone perciò una massiccia… sintesi proteica!

Un breve accenno su cui torneremo in dettaglio nel prossimo articolo: tutta questa roba di plasticità strutturale non è simile a sincronizzazione, reclutamento, coordinazione… “inizialmente i miglioramenti di forza sono dovuti ad un miglioramento della coordinazione motoria”… interessante, vero? Partiamo dai muscoli e tocchiamo un po’ il cervello come se il cervello usasse i muscoli differentemente dal resto di se stesso… ci torneremo, ci torneremo.

Fondamentale: la plasticità strutturale e funzionale è propria dell’intero sistema nervoso, anche del midollo osseo. Studi raccapriccianti su pazienti che hanno subito la rottura del midollo mostrano chiaramente che questo ri reorganizza anche sotto la lesione: il Sistema Nervoso lotta con tutte le sue forze e non molla mai, nemmeno in situazioni estreme.

Un esempio, non fissatevi

A questo punto dovrebbe essere più chiaro cosa significa “imparare”, per illustrare il concetto faccio un esempio. UN-ESEMPIO: una semplificazione immensa come voler fotografare un buco nero nel cielo notturno con il cellulare. Il suo scopo è fornire un modello mentale per apprendere i concetti nuovi.

A sinistra un cervello rappresentato dall’ippocampo e dalla corteccia cerebrale, in basso un po’ di neuroni relativi alle due aree. Nella corteccia cerebrale abbiamo la memoria a lungo termine derivante dai ricordi appresi, cioè imparati in passato. Per quello che abbiamo appena visto, la memoria non può che essere data da una ben precisa configurazione neurale: neuroni connessi in un certo modo, con una ben precisa chimica interna.

Uno stimolo esterno arriva tramite i nervi sull’ippocampo, provocando l’eccitazione o l’inibizione dei neuroni che lo ricevono. Questi neuroni sono connessi ad altri neuroni, pertanto li stimoleranno o li inibiranno e così via in cascata.

A seconda dello stimolo e di cosa c’è nell’ippocampo cominceranno a delinearsi delle tracce neurali.

Sappiamo che l’ippocampo ha la funzione di “insegnante” per la corteccia, pertanto anche se lo stimolo in ingresso non c’è, come a destra, invierà segnali dell’esperienza alla corteccia stessa. Analogamente, sulla base della configurazione dei neuroni presenti si formeranno delle tracce neurali che andranno a modificare la vecchia.


La riorganizzazione del cervello non è immediata ed è un bene altrimenti qualsiasi esperienza altererebbe pesantemente la memoria, anche eventi o sensazioni che non si proveranno mai più: perché le tracce neurali si stabilizzino, perché la chimica delle sinapsi e dei neuroni cambi, perché gli assoni e i dendriti crescano e si connettano è necessario che lo stimolo agisca più volte. In questo modo i cambiamenti diventano permanenti.

Notate come nel disegno in basso a destra la traccia neurale della memoria a lungo termine della corteccia sia cambiata, integrando parte della nuova dovuta alle nuove esperienze.

L’apprendimento porta pertanto al cambiamento del Sistema Nervoso e questo avviene sempre.

L’allenamento

Cosa propone il terapista per recuperare le funzionalità perdute? Un apprendimento motorio, qualcosa di simile ad un allenamento. Perciò l’allenamento è un processo di apprendimento motorio che porta ad una riorganizzazione del cervello.


L’allenamento porta alla creazione di tracce neurali sul vostro sistema nervoso, dal midollo fino alla corteccia. Queste tracce sono ciò che vi permette, una volta richiamate, di compiere i movimenti che ci interessano.

In ogni istante della traiettoria di uno degli aggeggi che ci piace gli input sensori stimolano percorsi neurali che portano segnali ai muscoli perché si contraggano. Ogni output produce dei nuovi input e ogni input scatena una nuova traccia!

L’apprendimento di un movimento è pertanto la creazione delle “giuste” tracce nel vostro Sistema Nervoso, e questo è ciò che fa un buon allenamento.

Il segreto dell’acciaio.


Eccolo, il segreto dell’acciaio: quando vi allenate alterate il vostro sistema nervoso, lo fate cambiare. Il sistema nervoso è allenabile.

“Eh si ma si sapeva…”. No, non si sapeva. Mi sconvolge questo fatto! Non si sapeva perché non viene data la giusta importanza a questo aspetto che è sempre marginale e vi farò anche vedere che è così.

Noi studiamo i muscoli e da questi risaliamo alla placca motrice e ai motoneuroni. Ma… ci fermiamo lì. Questo è il problema. La polarizzazione della conoscenza rispetto a ciò che ci interessa, senza spaziare in altri campi. E’ chiaro che anche il SNC viene ad essere toccato, ma non capiamo la portata di questo cambiamento.

Cosa cazzo può fare un muscolo se non alterare il quantitativo delle sue fibre, dei suoi capillari o dei suoi liquidi? Niente, un cazzo d’altro. Il SNC riconnette intere sue aree, varia la potenza dei messaggi in trasmissione e ricezione, li coordina sempre meglio.

Per capire come allenarci dobbiamo capire quali sono i modi migliori per apprendere le cose, dobbiamo rivolgerci a studi che riguardano pianisti, violinisti, scacchisti, ciechi, amputati, gente che recupera da danni cerebrali. Perché sono questi i casi che mettono sotto stress il nostro cervello e sono questi che ci forniscono informazioni utili.

Pensiamo troppo a come cambiano i nostri muscoli, alla massa, all’ipertrofia: una sinapsi è capace di cambiare il suo potenziale eccitatorio nel giro di qualche minuto con effetti evidenti, un muscolo reagisce con una risposta ipertrofica evidente in qualche mese. Il cervello è capace di cambiamenti strutturali che altri organi non hanno assolutamente e non può che essere così dato che è ciò che contiene la nostra coscienza e il nostro impulso alla sopravvivenza in qualsiasi ambiente.

Sottoutilizziamo il più potente mezzo di miglioramento che abbiamo, persi dietro a particolari irrilevanti. Possiamo imparare a parlare, a camminare nuovamente dopo un ictus, possibile che non si riesca a fare uno squat sotto il parallelo? No ragazzi, è assolutamente impossibile.

Nel prossimo articolo delle inaspettate conseguenze di tutto questo. Tanto per dire, è così importante l’assetto ormonale per i risultati al passare del tempo? E’ così importante lo schema di allenamento? E’ vero che i primi risultati sono dovuti a modificazioni neurali e quelli successivi solo ad una risposta ipertrofica? I risultati di certi campioni sono solo dovuti alle doti o c’è dell’altro?

Intanto, fatemi sapere.
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Trokji Trokji Non in Linea
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Predefinito 28-01-2010, 04:39 PM


Beh devo dire che dalla conclusione un po' si capisce dove volevi andare a parare.
In realtà nella memoria a lungo termine, come in parte hai messo in evidenza, si parla di modificazioni anatomiche.. ovvero non solo variazione del numero di recettori e delle quantità di neurotrasmettitore, ma anche cambiamento del numero di sinapsi e dei collegamenti tra neuroni..
Infatti ricorderei che i neuroni non sono statici.. ma possono aumentare il numero dlele proprie connessioni (se non erro sono "guidati" in questo dall'NGF) e spesso i neuroni muoiono nel "tentativo" di stabilire connessioni con gli altri neuroni.. c'è quindi una specie di "selezione naturale" nella formazioni di nuovi circuiti nervosi.
Oltre a questo aggiungerei che in base alle acquisizioni più recenti pare che i neuroni non siano una popolazione totalmente statica, ma si possano formare nuovi neuroni a partire da cellule a carattere staminale, anche nell'adulto (secondo alcuni gli ependimociti sarebbero cellule con questi caratteri).
Tutto questo però mi chiedo.. se è utile (per chi studia queste cose) e sicuramente affascinante..a cosa serve a chi si allena coi pesi?
Certo studiando il sistema nervoso capirà che è tutto collegato..(c'è ad esempio un principio di uniformità nelle unità motorie.. tipo di neurone =tipo di fibra nervosa.. sembra che sia il tipo di scarica di quel tipo di neurone a determinare lo sviluppo di un dato tipo di fibra nervosa.. come a dire dimmi i tuoi neuroni motori ed io ti dirò che tipo di muscoli avrai) e come il sistema nervoso e le fibre muscolari siano strettamente collegate..però mi chiedo dov'è il risvolto pratico di tutto questo? non per lo studioso ma per l'aspirante bodybuilder powerlifter o pesista in generale?
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IronPaolo IronPaolo Non in Linea
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Predefinito 28-01-2010, 10:36 PM


eh eh eh la domanda è lecita ma ha però diversi livelli di risposta, come sempre nelle domande apparentemente semplici.

Ok, a che serve tutto questo... nelle prossime puntate. Altrimenti, che gusto c'è?

la risposta più semplice che però ti posso dare è che dopo 25 anni a pensare a queste cose le domande che uno si pone sono sempre più complesse, ma non lo dico per far vedere che sono bravo o che altro... esaurite le domande semplici, rimangono quelle difficili e dopo quelle complicate. E sempre più si sente il bisogno di "integrazione". E' un processo normale per qualsiasi essere umano. Sono rimaste solo le seghe mentali ah ah ah

Ora ti rigiro la domanda con un'altra analogamente apparentemente semplice.

Cosa serve al bodybuilder o al powerlifter?

gli serve il miglior metodo per ottenere ciò che vuole. Il problema si pone quando questo metodo fallisce. Che fare? Un altro metodo. Ma... perchè? E così via.

Ti puoi accontentare di eseguire un 3x8 o capire perchè il 3x6 certe volte sia meglio. Puoi capirlo empiricamente dandoti delle spiegazioni, oppure documentandoti. Sta ad ognuno di noi decidere quando fermarsi, e quel momento è decretato dal fatto che ha raggiunto un modello che spiega ciò che gli interessa.

Sembra difficile, ma non lo è.

Io, presuntuosamente, vorrei derivare una teoria del powerlifting che non derivi da altre teorie "sportive", dove non siano presenti derivazioni del weightlifting con la sua "potenza" o dell'atletica con i suoi squat jump.

Non è complesso di inferiorità o rivoluzione dalla sudditanza, è cercare una specificità per il nostro sport che di fatto manca. E voglio derivarla da altri fronti, altri terreni. Come allenare lo squat lo sappiamo, oramai i risultati ci danno ragione: ragazzi che migliorano anche tantissimo, che vengono alle gare, che fanno risultati interessanti.

Perchè, però questa roba funziona? Perchè nessuno di noi fa "potenza" o "esplosività" e migliora? Stiamo sbagliando oppure no? Sarebbe meglio fare altre cose oppure no?

Questo serve al powerlifter. E questo sto cercando di creare. Perchè questo immane compito? Perchè... mi va di farlo.

Il mio "compito" è far capire che questa roba serve. Non importa che le persone la studino o nemmeno che la leggano, però devono sapere che quello che fanno quando sono sotto al bilanciere ha una serie di motivi logici perchè sia fatto così e che se vogliono, possono risalire la corrente per arrivare alla fonte.ù

Poi, non mi riuscirà. Però perchè non provare?
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Trokji Trokji Non in Linea
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Predefinito 28-01-2010, 11:58 PM


Allora forse ho capito.. cioé in teoria tu vorresti andare oltre la semplice "integrazione" un po' fine a se stessa dell'allenamento con le nozioni di fisiologia, ma anche trovare le "basi", per costituire un allenamento non perfetto, ma per conoscere i meccanismi, così da sapere per esempio quando allenarsi in tal modo o quando cambiare perlomeno a grandi linee.
Quindi dare comunque una base di scientificità alla programmazione.. e modificare la programmazione proprio in base ai meccanismi fisiologici.
Io credo che per fare questo ci vorrebbe un lavoro sperimentale dietro, anche "ex novo" (come qualche anno fa, seppure in diverso contesto, diverso modo e con fini diversi fece Bryan Haycock con l'HST), comunque so benissimo che non solo tu.. ma quasi chiunque non potrebbe farlo.. ti auguro comunque di riuscire nel tuo intento
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IronPaolo IronPaolo Non in Linea
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Predefinito Hebb Squat - 01-02-2010, 04:51 PM


Ragazzi, questo è un gioco. Come dice il Saggio, “ognuno si diverte come gli pare, diceva quello che si martellava le palle sull’incudine”. In questo caso, una piccola rete neurale che impara a fare squat. Dio come adoro queste mental pipps …a me servono per capire meglio ciò che studio: mettere in pratica la teoria permette di sbattere il muso contro difficoltà sottovalutate dalla semplice lettura, per arrivare ad un grado di conoscenza secondo me superiore perché un minimo “vissuto”. In altre parole, se è vero che è possibile fare tesoro dell’esperienza degli altri evitando errori catastrofici, mettersi un po’ in gioco non può che portare un arricchimento.


Nel 1949 lo psicologo canadese Donald Hebb formulò quella che è diventata la regola di Hebb per l’apprendimento o la sinapsi di Hebb. In pratica formulò delle ipotesi su come potesse avvenire il processo di apprendimento negli strati del cervello.

Nei 40 anni successivi una serie di studi ha sempre più confermato che moltissime strutture cerebrali quali ad esempio l’ippocampo seguono la regola di Hebb, che è disarmante nella sua semplicità.

Il disegno la illustra: se un neurone invia in ingresso il suo +1 ad un altro neurone facendogli emettere il suo +1, la sinapsi diventa più “forte” tramite cambiamenti plastici (chimici o di crescita) in modo da permettere al neurone in ingresso di attivare sempre meglio il neurone di uscita.

Questa semplice regola ha delle implicazioni che nemmeno affronteremo, ciò che è importante è che il cervello funziona così, bene o male: semplici regole applicate ad un numero spropositato di elementi creando schemi del tutto inaspettati.

Il “rinforzo” della sinapsi viene definito Long Term Potentiation, è parte della teoria del Consolidamento

Poiché ho trovato delle implementazioni di reti neurali complicatissime, ho pensato di inventarne io una invece semplicissima (anche se alla fine per farla funzionare ci ho messo circa 30 ore eh…) in modo da dare la percezione di come si potrebbe visualizzare una “traccia neurale”.


Per prima cosa, è bene definire una rappresentazione che abbia significato ma che sia anche semplice da comprendere: a sinistra una rete di 6 neuroni, 3 in ingresso, ognuno si connette a tutti e 3 i neuroni di uscita.

Già così il disegno diventa incomprensibile, con tutti quei fili sparsi. L’ingegnere rende tutto più chiaro con l’uso dei colori o dei tratteggi, creando un bel foglio di Burda, quello che le nostre mamme usavano quando eravamo piccoli per copiare i modelli dalla rivista, un accrocchio incomprensibile di linee aggrovigliate (Burda è la rivista, non un effetto quantistico, chimico, astronomico…)

A destra perciò una rappresentazione più comprensibile: sulle righe i neuroni in ingresso, sulle colonne i neuroni in uscita, gli incroci sono le sinapsi e il diametro dei pallini rappresenta la “forza” della sinapsi.

Il dottor Hebb fa lo squat


Il buon Donald si rivolterà nella tomba sapendo che il suo mirabolante lavoro sull’organizzazione dei comportamenti verrà usato per far fare un rozzo squat ad una rete neurale… Nel disegno qua sopra il nostro squat sotto il parallelo, suddiviso in 10 posizioni differenti, 5 per la discesa e 5 per la risalita.

Ipotizziamo che gli elementi di questo modello siano la schiena, i femorali e i quadricipiti. Mi limito ad illustrare i passaggi successivi solo per la schiena, per semplicità.


Codifico ogni posizione della schiena tramite una sequenza univoca di 0 o di 1, in questo caso sposto l’1 di una casella al passaggio da una posizione ad un’altra: è una convenzione avrei potuto usare 1000 altri modi diversi, ma due cose sono importanti:
  • L’univocità della codifica: ogni posizione è perfettamente identificata dalla sequenza.
  • La sequenza “condensa” in se tutte le informazioni su forza dei muscoli della schiena, messaggi sensori visivi e propriocettivi: in un modello più sofisticato questi sarebbero evidenziati, ma questo contiene comunque le stesse informazioni.

Questo è pertanto il programma motorio per la schiena nello squat: quando la schiena è in una posizione, una riga della tabella input, la successiva inclinazione si ottiene leggendo la corrispondente riga sulla tabella output.

Facile, no? Adesso però la nostra rete di Hebb deve imparare questo programma: se in ingresso ho una configurazione, in uscita non ne voglio una a caso, ma quella che corrisponde alla posizione successiva, ciò significa che la rete sa pilotare la schiena!

“Alleno” la rete, cioè presento una configurazione in ingresso, la corrispondente in uscita e determino come deve variare la “forza” di ogni sinapsi tramite la regola di Hebb: ciò significa che se in ingresso ho un +1 e in uscita un +1 la sinapsi si deve rinforzare, altrimenti no. In questo modo forzo la rete ad imparare che se in ingresso c’è una configurazione, deve scappare in uscita solo una corrispondente altra.

In altre parole, insegno alla rete che se la schiena è inclinata in un certo modo e sto scendendo, l’istante successivo deve inclinarsi maggiormente.


Questo pazzesco disegno è la formazione di una traccia neurale nella nostra rete:
  • A sinistra la matrice 30×30 delle connessioni (schiena, quadricipiti e femorali, ognuno presenta 10 configurazioni in ingresso e 10 in uscita, 30×30)
  • Al centro una fase intermedia del training, si intravede la formazione di una “traccia” perché alcune sinapsi si rinforzano e altre si attenuano.
  • A destra la formazione quasi completa della traccia neurale, una configurazione ben definita di connessioni che permette, data una posizione del corpo in ingresso, di ottenere la successiva configurazione in uscita.
La rete ha appreso lo squat e dopo il training iniziale è autonoma.


Questo è il programma motorio per uno squat sopra il parallelo: arrivati ad una certa profondità il tizio… risale. Anche in questo caso la rete impara senza problemi il movimento!


Dopo un po’ si forma una nuova traccia neurale, differente dalla precedente che permette di scendere meno.

Questo è quanto avviene dentro il cervello: apprendere un certo movimento implica cambiare la struttura del proprio Sistema Nervoso, una alterazione fisica. Il movimento viene appreso, che sia “giusto”, che sia “sbagliato”. Poi, viene eseguito sempre allo stesso modo.

La plasticità del cervello è così incredibile che è possibile resettare lo schema, passando da sopra il parallelo a sotto.

Ho allenato la rete per scendere sotto il parallelo, forzandola ad imparare una nuova configurazione. Una volta fatto, il nuovo movimento costituisce l’output del “programma motorio squat”.

Se tutto questo vi sembra un gioco, vi voglio rassicurare: lo è. Però è un gioco basato sui principi di funzionamento del cervello che mostra come sia vera la frase del Grande Saggio: “allenati a cazzo, otterrai risultati del cazzo”

Abbiamo capito che il nostro cervello impara modificandosi, perciò perché fargli imparare delle idiozie che devono essere disimparate?
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Predefinito Ma... serve per la massa? - 01-02-2010, 04:55 PM


Molto tempo fa lessi nella Sala della Meditazione un articolo di Focus o de Le Scienze sul successo delle medicine alternative. Questo era dovuto al fatto che il medico “alternativo” ha un rapporto molto più profondo con il paziente. In altre parole, lo… ascolta.

Il classico dottore, quello della mutua ma anche proprio il “luminare” crea la sua anamnesi del paziente tramite mezzi strumentali o test clinici e ha perso, progressivamente, la capacità di ascolto, cosa che ad esempio l’omeopata ha. Molte volte si arriva a livelli paradossali in cui il dottore ti dice quello che hai e se tu fai notare che ciò che viene detto è in contraddizione con il proprio stato e che il causa-effetto torna poco… si altera. Addirittura ci sono dottori che sbuffano quando il paziente ritorna dicendo che la cura non ha funzionato, come se la malattia stessa volesse mettere in discussione il suo sapere.

Il problema è molto semplice: è impossibile stilare una diagnosi se non si ascolta che cazzo ha da dire il diretto interessato.

Ho frequentato e conosciuto in profondità molti ambienti sportivi differenti. Con mia sorpresa il profilo psicologico di colui che “fa i pesi in palestra” è estremamente recettivo ai cambiamenti, tendenzialmente è disposto a mettere in discussione molte delle sue certezze pur di ottenere il risultato voluto.

Questa caratteristica latita invece in tantissimi contesti competitivi che basano teoria e pratica dell’allenamento sulla “tradizione” e sul “si è fatto sempre così”, refrattari al cambiamento a meno che non venga dall’interno o da fonti sicure. Sperimentazione, intuizione, voglia di andare fuori dagli schemi sono qualità rare. Banalmente, allenatori che si attengono a quanto detto nei Sacri Testi di 30 anni fa, sicuramente ottimi, senza dare nemmeno due click scaci scaci a Google per vedere che si dice in giro…

Potremmo discutere per ore del perché e addirittura se è come dico io o come dite voi. Offritemi un drink e sarò lieto di incontrarvi in qualsiasi bar dove potremo anche parlare di temi ben più profondi quali “la violenza negli stadi” o “è possibile l’amicizia fra uomo e donna”

Il palestrato-che-vuol-capire è perciò propenso ai cambiamenti e mai come nel mondo del “fitness” c’è un proliferare di metodi e tecniche. Peccato per un piccolissimo particolare che rende questa propensione estremamente selettiva: gli input che arrivano al suo cervello sono filtrati da un semplicissimo programmino, due sputi di codice assembler che però girano a priorità altissima cablati a fuoco direttamente nel kernel del sistema.


Ecco il flow chart di questo programma che non si termina nemmeno prendendo a martellate l’hard disk o sparando nella CPU con una Desert Eagle: non ci sono cazzi, se il palestrato ha deciso che “non serve per la massa” non spenderà nemmeno due microsecondi del suo tempo, nemmeno se ne andasse della vita di un parente.

In questo pezzo descriverò le conseguenze pratiche del Segreto dell’Acciaio. Serve per la massa? Non lo so e manco mi frega perché se ragionate così la vostra conoscenza non evolverà di un millimetro e rimarrete ancorati ai soliti tre o quattro ragionamenti, un po’ come quelli che hanno letto Tecnica d’allenamento con i pesi di Stuart McRobert e per loro questo è il testo omnicomprensivo del Sapere Biomeccanico Universale.

Sono interessato, perciò ascolto


In tutti i testi di apprendimento, motorio o meno, un punto cruciale è la motivazione, il voler capire, comprendere, applicarsi. Perché voi possiate imparare qualcosa dovete volerlo. Non solo: dovete essere curiosi di provare, di mettervi in gioco.

Si sentono tanti discorsi sulla “testa” e le “palle”, sulla mentalità vincente bla bla bla. Bene: in questo caso ciò che serve non è l’atto eroico a fine partita, ma proprio il volersi interessare nello spogliatoio della strategia della gara.

Tutto questo aumenta la recettività della vostra mente. Non occorre essere dei geni per capire che una persona demotivata o svogliata manco ascolterà quello che dite, ma se non ascolta… cosa va a finire in quella testaccia?

Cosa processa quel cervello se le informazioni in ingresso non ci sono?
Il problema è però più sottile. Se manca la voglia di mettersi in gioco, la curiosità, tutte le informazioni saranno filtrate per determinare dove siano in difetto, dove vadano in contraddizione con il vissuto personale come se questo contrasto fosse un attacco alle proprie sicurezze. L’informazione sarà distorta e l’apprendimento fallirà. Non solo è necessario ascoltare, ma anche ascoltare senza giudicare se non alla fine.

Per questo motivo, prego i seguenti soggetti di evitare di leggere:
  • Quelli che vivono l’allenamento come una battaglia personale contro tutti quelli che non si allenano come loro. Cercheranno solo le differenze con le proprie idee, amplificandole negativamente e non vedendo invece le similitudini. Perdono così l’occasione di integrare le differenze a partire dalle uguaglianze, arricchendo il loro personale bagaglio. Si arroccheranno sulle loro posizioni difendendo l’indifendibile.
  • Quelli che vogliono solo risultati pratici, immediati, spendibili. Quelli che hanno fretta di ottenere qualcosa. Parcellizzeranno tutto il testo in una serie di caselline etichettate “questo mi serve”, “questo non mi serve” come una specie di elenco di dritte. Così facendo si concentreranno sul particolare perdendo di vista la visione generale e la “dritta n°5” (o il “tip #5” se volete) andrà irrimediabilmente in contraddizione con la “dritta n° 64”.
  • Quelli che leggono e pensano “questo lo so già”, un mio difetto tipico. In ogni testo, specialmente in quelli che scrivo io, è difficile trovare delle grandi novità. Su 100 nozioni solo 2 saranno veramente “nuove”. Però filtrare le informazioni con “questo lo so già” significa che quando le due novità passeranno sotto gli occhi non verranno viste, garantito. Il meccanismo è una forma di pregiudizio, pre-giudizio: giudicare prima. Prima di conoscere veramente la fine ho già dato la mia opinione, ma… la fine non la conosco.
  • Saccenti, strafottenti, boriosi, presuntuosi, gente che non è capace a dire “ok, scusa ho sbagliato”. Non perché non apprenderebbero ma semplicemente perché mi stanno sui coglioni i tipi così. “Scusarsi” è una forma di “forza” d’animo, non di “debolezza”: è più difficile ammettere i propri errori che evidenziare quelli degli altri. Chi non si scusa mai è per me, fondamentalmente, un insicuro.
Perciò, respirone… fatto? Ok, leggete e magari qualcosa vi servirà. Forse, “per la massa”. Di sicuro, “per la forza”.

Motor learning

E’ possibile affrontare l’argomento “apprendimento motorio” in due modi: induttivo partendo dal basso, dagli effetti, e risalendo verso le cause, deduttivo partendo dall’alto, dalle cause, e scendendo verso il basso verso gli effetti.

Sebbene ami la prima strada perché evidenzi meglio il percorso di conoscenza, ho stavolta preferito la seconda: vi ho triturato i testicoli con tutta la pizza su come il cervello memorizza le informazioni, adesso è del tutto banale liquidare l’apprendimento motorio, garantito.


Richiamiamo il Segreto dell’Acciaio ™©® (l’uso non autorizzato del marchio comporta la fucilazione sul posto dopo dolorose torture fisiche): il cervello è allenabile, cioè le esperienze lo cambiano. La memoria è la formazione nel cervello di “tracce neurali”, connessioni fra neuroni e alterazione della chimica di queste connessioni: il cervello è plastico e si adatta all’ambiente per sopravvivere.

Vi presento uno schema molto famoso quando si parla di apprendimento motorio o motor learning.


Lo schema rappresenta l’esecuzione di un movimento complesso. Sembra difficile, per questo ho messo un sacco di disegnini, come si fa con i bambini piccoli o con i giapponesi per intessarli all’argomento (alla fine anche uno zuccherino, come ai cavalli). Immaginate di stare eseguendo uno squat e mettete un dito sulla casella programma motorio:
  • Dovrebbe essere abbastanza intuitivo che il movimento del vostro corpo è gestito da una specie di “programma”, nel senso che il gesto complessivo è la somma coordinata di tanti piccoli gesti: i glutei indietro, la schiena contratta e così via. Di sicuro non alzerete la gamba destra o a metà discesa toglierete le mani dal bilanciere: esiste una “regia”, che è direttamente nella nostra testa.
  • Il programma impartisce le proprie direttive inviando “ordini” attraverso il midollo spinale (muovete il dito più in basso, non addormentatevi perché non lo dirò più, fate finta di giocare al Gioco dell’Oca). Vi è una semplificazione nel senso che il programma “gira” anche nel midollo spinale, ma per ciò che ci riguarda va bene così.
  • Gli ordini arrivano ai muscoli e il movimento inizia, interagendo con l’ambiente. In questo caso il bilanciere che scende.
Notate come il fatto di compiere un gesto sotto l’azione di ordini motori comporti l’attivazione di tutta una serie di sensori che forniscono informazioni:
  • L’ambiente attiverà una risposta uditiva o visiva, tramite i nostri sensi. Nel nostro caso, vedere che ci stiamo abbassando e che le barre del rack scorrono ai lati della nostra visuale.
  • Il movimento stesso fornirà indicazioni sulla posizione spaziale delle nostre singole parti corporee.
  • I muscoli, i tendini e le articolazioni segnaleranno il loro stato di tensione interna tramite i propriocettori quali gli organi del Golgi o i fusi neuromuscolari.
Queste informazioni sono dette di ritorno perché proprio tornano indietro tramite le terminazioni motorie sensive risalendo la spina dorsale per entrare nel cervello: tornare indietro, feedback.

L’intero set informativo costituisce ciò che si chiama “cosa è stato fatto” (non lo trovate sui libri, è una mia idea…) ed un ingresso del sommatore rosso con il “+” dentro. Il sommatore confronta cosa “è stato fatto” con “cosa andava fatto” per generare l’ordine successivo, il “cosa deve essere fatto” necessario per la scelta del successivo programma motorio e… il ciclo riprende.

Il disegno costituisce un cerchio perché tornate al punto iniziale con un nuovo comando: cerchio, loop. Il movimento è a catena chiusa o closed loop.

Tutti i movimenti che eseguiamo in palestea sono a catena chiusa perché vi è un continuo controllo della traiettoria essendo svolti lentamente a causa del carico elevato. La caratteristica fondamentale di un movimento a catena chiusa è il fatto che l’effetto influenza la causa, permettendo di riprendere eventuali situazioni anomale e di correggere se possibile le traiettorie.

I movimenti balistici sono invece a catena aperta: la velocità elevata impedisce il controllo della traiettoria con il ritorno delle informazioni e infatti ciò che conta in questo tipo di movimenti è settare bene le condizioni iniziali per poi eseguire il tutto più velocemente possibile, partendo dal presupposto che se “parto bene” il risultato non può che essere ciò che voglio.

I movimenti a catena chiusa o a catena aperta caratterizzano anche i vari stadi dell’apprendimento. Quando imparate un movimento nuovo state attenti a ciò che fate, cioè controllate che gli ordini del vostro cervello determinino l’effetto che cercate, proprio secondo lo schema descritto. Quando invece il movimento è stato assimilato lo eseguite con minor attenzione alle informazioni di ritorno, in automatico.

Ora, secondo me questo tipo di distinzione è un errore didattico perché induce il lettore in un pericoloso errore: se riesco a fare uno squat pensando a finire la serie piuttosto che alle singole ripetizioni il movimento è comunque closed loop poiché il controllo dello “stato” dell’atleta avviene lo stesso dato che i sensori sono sempre attivi e forniscono informazioni.

Solamente movimenti estremamente veloci, più veloci del tempo di risposta dei sensori e di attuazione degli ordini, possono essere considerati veramente open loop, ma sono molto meno di quanto si possa pensare.
Amici martellisti mi raccontavano che durante un lancio riuscivano a percepire la correttezza dell’assetto per poterlo in qualche maniera correggere prima che il martello schizzasse via. Tentavano di correggere un errore in partenza: quando atleta e martello girano quest’ultimo deve sempre “stare dietro” l’atleta perché ciò significa che è l’atleta che comanda e non la palla di ferro.

Analogamente i saltatori in alto, con l’asta, triplisti e saltatori in lungo capiscono benissimo se l’istante della spinta a terra è “good” or “bad” e adattano la traiettoria in aria per quanto possibile.

Non fatevi fregare, i movimenti closed loop, a feedback o retroazionati sono quanto di più potente esista in Natura. La Natura stessa è closed loop, perché l’effetto di una causa è causa di un nuovo effetto…

Un programma motorio

A questo punto nella classica trattazione dell’apprendimento motorio inizierebbe una lunga trattazione su cosa sia un programma motorio, mentre noi liquidiamo questo in 30 secondi.


Un programma motorio è l’attivazione di una serie di tracce neurali, di percorsi dentro la corteccia cerebrale e il midollo spinale dovuti ai sensori esterni che permette l’invio degli ordini agli organi motori. Fine. Punto.
Come si crea un programma motorio? Ripetendo il movimento tante volte quanto è necessario perché si formino nuove connessioni che permettano di organizzare al meglio ciò che è richiesto. Anche qui, fine, punto.

Spero di riuscire a comunicare questo messaggio: allenare un movimento è alterare il proprio Sistema Nervoso come avviene in un qualsiasi fenomeno di apprendimento. In questo caso l’alterazione è dentro la corteccia motoria e l’allenamento diventa un caso particolare di apprendimento.

Practice makes you perfect?


Tutti conosciamo il detto “la pratica rende perfetti”: la pergamena virtuale ne è la rappresentazione ingegneristica con le forme per i bambini piccoli. Il programma neurale si crea ripetendo il movimento e confrontandolo con un movimento di riferimento, fino a che “non viene bene”.

Si può notare come l’apprendimento stesso sia un processo closed loop di continuo confronto fra ciò che è stato fatto e ciò che si sarebbe dovuto fare. Molti temono gli “errori” cioè il non eseguire un movimento in maniera corretta, ma in realtà gli “errori” sono un fenomeno inevitabile: l’”errore” è semplicemente una differenza con il riferimento preso, ed è necessario per avvicinarsi a questo!

Se non esistessero queste differenze sarebbe impossibile apprendere, perciò è possibile affermare che gli errori siano necessari o, estremizzando, che non esistono errori ma solo opportunità di miglioramento!

Problemi

Per quanto lo schema esemplifichi ciò che tutti facciamo, nasconde al suo interno una serie di subdole finezze che sono la causa del mancato raggiungimento della “perfezione”.

Un primo problema è che, ovviamente a mio avviso, le implicazioni dei concetti descritti non vengono spiegate correttamente allo studente, impedendogli di comprendere veramente la portata delle problematiche.


Nei vari studi sull’apprendimento motorio troviamo spesso questi tipi di grafico. A sinistra le “curve di apprendimento”. E’ relativamente facile quantificare l’apprendimento di uno schema motorio ad esempio contanto il numero di “gesti” eseguiti correttamente sul totale dei gesti: più questo numero aumenta, più si è appreso bene il movimento.

La curva B è tipica dell’apprendimento di movimenti complessi: all’inizio i gesti sono “scorretti” perché si devono proprio apprendere le basi, poi tutti noi abbiamo sperimentato una impennata di miglioramenti con una successiva decrescita. Ciò avviene perché superata la primissima fase in cui è necessario apprendere la coordinazione di base, quando si è formata una prima traccia motoria ogni successiva ripetizione porterà a rinforzarla sempre di più, fino a che non si sarà stabilizzata nella nostra corteccia. A quel punto il movimento è appreso e non ci sono più differenze esecutive.

A destra un altro classico grafico che mostra ciò che tutti sappiamo: i miglioramenti iniziali sono dovuti a potenziamenti neurali, quelli successivi a potenziamenti ipertrofici. Come si suol dire, la massa viene dopo la forza.
Il problema di queste rappresentazioni è che forniscono un modello semplice da ricordare ma… sbagliato perché parziale. Sembra, cioè, che il processo sia continuo ed uniforme, una bella S et voilà, si impara e poi… poi o massa o si è raggiunto il proprio limite. Sull’asse del tempo che unità di misura c’è? Secondi o eoni?


Superata la fase iniziale in cui in qualsiasi movimento siamo al livello “bradipo brocco” in palestra iniziano i miglioramenti dovuti proprio alla pratica dei movimenti.

Questi, spiace dirlo per coloro che pensano che facendo due cagate di squat o di panca di essere dei veri guerrieri, sono molto semplici rispetto ai gesti della ginnastica, del balletto o delle arti marziali dove risulta evidente a tutti che serva molto tempo per raggiungere un livello di decenza minimo.

Non solo: essendo la palestra una attività non codificata in cui la mediocrità imperversa senza freno, arrivati ai primi 100Kg di panca storta si pensa di essere sulla cima della S, quando invece siamo del tutto dall’altra parte, come illustrato nel grafico qua sopra a sinistra dove ho sostituito l’apprendimento con la forza: se la nostra forza aumenta, infatti, abbiamo appreso come utilizzare meglio il nostro corpo per quello che ci interessa.

Non solo: può capitare che ristagnamo per anni sempre agli stessi livelli poi… bang, cambiamo qualcosa come a destra e la nostra forza migliora. Ciò significa che l’apprendimento motorio era ben lontano dall’essere concluso!


Chiaramente io non ho dati statistici alla mano, posso solo portare la mia esperienza che però trova spiegazione all’interno di questo modello:
  • A sinistra l’andamento del mio massimale di stacco solo cintura negli anni: dopo un picco terrificante una lunghissima stasi, poi il bang!
  • Se il miglioramento è stato importante sul massimale, è sul volume di lavoro, cioè sul carico di allenamento che il salto è ancora più impressionante, come mostrato a destra: nel 2008 sono riuscito ad usare il carico massimale del 1993 per ben 10 volte di fila nell’arco di mezz’ora, un miglioramento del 1000%
Perché questo comportamento? Torniamo alla pratica che rende perfetti: per ottenere un miglioramento è necessario che siano a puntino i contenuti di tutte le caselle.

Per prima cosa, è necessario avere ben chiara quale sia la tecnica ideale: se non voi, il vostro allenatore ma qualcuno deve capire quali siano i principi biomeccanici del movimento. Se così non è tutti noi ci limiteremo a “la schiena nello stacco deve stare dritta” senza capire che è invece necessario tenere compattati i dischi vertebrali contraendo tutti i muscoli paravertebrali.

Conoscere la tecnica corretta è una competenza che si acquisisce solo se si è a contatto di persone competenti nell’ambiente, solo se si vuole andare oltre il normale bagaglio di conoscenze. Non voglio che pensiate che io mi ritenga competente, però vi posso dare alcune dritte che permettono di far capire se l’interlocutore con cui guardate un video o un atleta è competente , anche se voi siete assolutamente digiuni della materia:
  • Deve essere in grado di farvi capire la logica del movimento in maniera chiara fornendovi informazioni superiori alla semplice banalità.
  • Deve essere in grado di farvi notare particolari che voi non avete notato.
  • Non solo, dopo dovete essere in grado di percepirli autonomamente in tutti i seguenti movimenti: ciò significa che vi hanno descritto degli aspetti del movimento che effettivamente si ripetono.
  • Deve essere in grado di evidenziare i possibili errori spiegandovi il perché essi accadono e come evitarli. La spiegazione deve seguire un filo logico, nel senso che osservando una serie di movimenti di persone diverse deve essere possibile evidenziare i pregi e i difetti di ogni esecuzione.
Che sia motocross, pesca subacquea, sollevamento olimpico o freeclimbing “uno che le cose le sa” riesce a spiegarvi con semplicità perché e come certe cose succedono senza annodarsi.

L’analisi delle differenze fra ciò che fate voi e la tecnica ideale è direttamente collegata alla conoscenza della tecnica ideale stessa: la conoscenza della tecnica ideale è una condizione necessaria per riuscire a capire in cosa la personale tecnica si discosta.

Non è però sufficiente. Ciò che manca è qualcosa di banale, così banale che mi vergogno a scriverlo: è indispensabile riguardarsi. Noi lifters domenicali non abbiamo mai un allenatore, siamo allenatori di noi stessi. Come capire ciò che stiamo facendo se non ci riguardiamo?

Il motivo fondamentale per cui io sono migliorato è stato il calo del prezzo delle videocamere MiniDV: la prima volta che vidi un mio stacco… rabbrividii!
Oggi con le webcam a basso costo e la possibilità di fare video con cellulari da 3 euro è possibile per tutti mettere in pratica lo schema in maniera corretta. Il problema è che tutti guardano e commentano i video degli altri e mai i propri.

Perfect practice makes you perfect!

Il punto è che solo così è possibile modificare ciò che si discosta dalla tecnica ideale e… migliorare.

Perciò, non è un problema di volume di allenamento né è vero che la pratica rende perfetti: è la pratica perfetta che rende perfetti!
Dovete ficcarvi questo in testa: l’esecuzione ripetitiva di un movimento porta alla creazione di uno schema nel vostro cervello. Questo accadrà comunque. Se voi imparate un movimento di merda, la traccia neurale permetterà solo la ripetizione di un nuovo movimento di merda, anzi, lo consoliderà sempre di più tanto che per voi quello sarà il movimento corretto.

Più voi pensate che state facendo bene, meno sarete propensi a mettervi in gioco, più difficile sarà distruggere lo schema mentale preesistente per costruirne uno nuovo: se ritornate indietro al processo di memorizzazione, il vostro cervello confronta una esecuzione con quella che ha assimilato.

Se lo schema è sbagliato è necessario resettarlo del tutto, distruggerlo per ricrearlo. Per far questo esisterà un periodo transitorio in cui per forza di cose “peggiorerete” perché state facendo svanire la vecchia traccia ma quella nuova non è ancora pronta: a tutti scoccia peggiorare, perciò questo processo non lo attua quasi mai nessuno, attribuendo alla genetica o a problemi posturali ciò che invece è la creazione di una traccia sbagliata nella propria testa.

Questo è ciò che è successo a me ma poiché sono un essere umano basato sul carbonio come tutti voi, questa è di sicuro la spiegazione più convincente per i fallimenti di tutti gli altri.

Dual Factor Theory… again!


La Dual Factor Theory è l’evoluzione della Supercompensazione. Sono convinto che fra qualche anno qualcuno la spaccerà per una incredibile novità tirando fuori forme di allenamento assurde.

A seguito di un allenamento il livello di preparazione ha prima una decrescita per poi risalire oltre il livello iniziale. E’ un modello macroscopico che cerca, come per la Supercompensazione, di dare una spiegazione agli effetti dell’allenamento.

La particolarità di questa teoria è che l’effetto dell’allenamento non è monolitico come per la Supercompensazione (mi stanco, “compenso”, “supercompenso” per poter resistere ad uno stimolo ulteriore) ma suddiviso in due componenti: fitness, la componente di miglioramento, fatigue, la componente di fatica.

La teoria stabilisce perciò che il miglioramento c’è sempre, solamente è coperto dalla fatica. Per ottenere una prestazione è necessario dissipare la fatica per dar modo al miglioramento di manifestarsi.

Una teoria del genere è, passatemi il termine, neurofisiologicamente molto più plausibile della Supercompensazione: l’effetto dell’allenamento è una variazione della configurazione del Sistema Nervoso che avviene sempre. Se l’allenamento permette il perfezionamento del gesto tecnico (tecnica ideale, analisi delle differenze bla bla bla) il Sistema Nervoso varierà “migliorando”.
Pertanto, a seguito di ogni allenamento il miglioramento è sempre presente!

La Supercompensazione invece non riesce ad inquadrarsi in questo contesto: essendo monolitica a seguito di un allenamento c’è solo un peggioramento ma questo cosa implica? Che il mio Sistema Nervoso peggiora?

Chiaramente l’allenamento comporta il drenaggio delle risorse organiche: accumulo di scorie metaboliche, microlesioni, sbilanciamenti elettrolitici e tutto quello che macroscopicamente si chiama fatica.

Perciò l’allenamento è di fatto un equilibrio: il massimo stimolo che l’organismo può tollerare. Pertanto, per migliorare devo allenarmi quanto più frequentemente e intensamente possibile per cablarmi in testa gli schemi motori che mi servono ma compatibilmente con le disponibilità delle mie risorse organiche.

Sovra-allenarsi significa andare in riserva con tutte le conseguenze del caso non ottenendo od ottenendo meno delle aspettative, sotto-allenarsi significa non fornire lo stimolo corretto, anche in questo caso non ottenendo o ottenendo meno.

Il talento è sopravvalutato

“Si ma lui è geneticamente portato”, “si ma io sono un ectomorfo”, “si ma la forza è per il 70% genetica”. Mi sono imbattuto in uno studio molto interessante: “The Role of Deliberate Practice in the Acquisition of Expert Performance”, un mattone di 44 pagine anche un po’ classista.

In sintesi, emerge da questo studio che in quasi tutti i campi ciò che al “pubblico” sembra essere talento in realtà è la manifestazione di anni ed anni di pratica secondo quelli che sono i canoni che ho descritto. Il livello di performance dei violinisti d’elite (non i primi 10 al mondo, ma i primi 10 delle più importanti scuole) è oramai tale che Paganini sarebbe fuori da qualsiasi selezione e così negli scacchi o nel balletto. Se ci pensiamo, è così in qualunque sport.

E’ vero, il talento è fondamentale. Ma oramai ad ogni livello le competizioni non vengono più vinte da emeriti sconosciuti: il top è raggiunto da talenti che si allenano proprio ricercando la perfezione in ogni aspetto del loro gesto atletico e la genetica ha a quei livelli un ruolo marginale dato che è una costante per tutti (come il doping, perciò toglietevi quel risolino idiota dalla bocca…)

In palestra la genetica è sopravvalutata perché il livello di apprendimento motorio è scarsissimo e i risultati prestativi considerati come di rilievo sono invece mediocri se confrontati con le giuste scale di riferimento.
La massa è dettata dalla genetica, la forza molto meno. Infatti la forza migliora tantissimo mentre la massa molto meno.

Però perché la forza migliori è necessario purgare via dalla propria testa strati e strati di guano neurale, incrostato da anni ed anni di pratica sbagliata e di nozioni errate.
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